Alfonso Leoni, ovvero i sentimenti del gioco

Per Jean Piaget il gioco ha una funzione centrale sia nello sviluppo della sfera cognitiva personale sia della personalità. E così s’è verificato per Alfonso Leoni.

La giovane età dell’artista, nato nel 1941 e morto nel 1980, può essere il primo elemento che colpisce. È un dato cronologico, questo, comunque da tener presente in rapporto alle opere per il tempo avanzate della sua ricerca estetica, dai venti ai trentanove anni, rilevabili soprattutto in sé ma anche più mettendole in comparazione con quanto di meglio e di più avanzato veniva fatto in quegli anni nell’angusto mondo ceramico italiano. Bisognerebbe dire che ciò avvenne anche in rapporto a quello internazionale specie statunitense, il che però richiederebbe qui una anamnesi vasta e molto impegnativa. E Leoni, si tenga presente, s’era recato più volte anche negli Stati Uniti d’America… e ne tornava ogni volta con tanta documentazione.
È molto indicativo un fatto: nel 1976 Alfonso Leoni veniva incluso in un gruppo di maestri scultori ceramisti di una generazione anteriore alla sua per la gran parte (l’unico pressocché coetaneo era il veneto Candido Fior), nel filmato “Terra Viva. Scultura ceramica italiana negli anni settanta”, opera del regista Aldebrando De Vero con testo critico di Enrico Crispolti. In questo documentario erano presentati vari artisti: il veneto Federico Bonaldi, il siculo-romano Nino Caruso, il già detto Candido Fior,  l’eugubina-romana  Nedda  Guidi,  il veneto Pompeo Pianezzola, il veneto Alessio Tasca, il marchigiano-lombardo Nanni Valentini, il faentino Carlo Zauli.L’unico a sovvertire, a mettere in discussione l’opus ceramico era Alfonso Leoni, di cui veniva ripresa la seconda performance al museo di Faenza ripetuta apposta per questa sequenza cinematografica.
 

Subito dopo il mio arrivo, nel 1974 a Faenza, ebbi interessanti colloqui con l’artista, da cui scaturì la performance suddetta nella quale lui stesso, con procedimento di valenza fortemente metaforico/simbolica, prendeva a martellate alcune sue opere distruggendole e così producendo quasi uno choc nei presenti che associavano quella gestualità alle opere integre nelle vetrine del museo, famoso peraltro per basarsi su una documentazione didattica dai frammenti di scavo. Il gusto della classificazione alla Linneo, i giochi dei puzzles, i significati dei frammenti, la parte e il tutto…
Proprio nei primissmi anni settanta il mio predecessore Giuseppe Liverani aveva proceduto ad allestire nel museo stesso un’ampia sezione purtroppo mai pubblicata, che molto influenzò la ceramica d’arte contemporanea: ma mentre Carlo Zauli, ad esempio, ne prendeva spunto per svolgere la sua narrazione in direzione naturalistica niente affatto concettuale, Alfonso Leoni ne sviluppava irruentemente le implicite valenze concettuali (anche i suoi assemblaggi con frammenti qui presenti di porcellane utilizzate quand’era in Germania alla Villeroy Boch mi permetto di dire che derivano dagli ordinamenti museali che soprattutto avvenivano tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta al Museo di Faenza).
E questo già diceva molto su quanto avanzasse gli altri il nostro artista che adiva così ad una azione molto ardua, quella concettuale appunto, non consona di per sé – per il carattere hard com’è la ceramica – a seguire sempre docilmente le tante pieghe anche speculative del pensiero, del sentimento, della ricerca, del gioco come attività polisemica e di metacomunicazione.
Ogni futura impresa su Leoni dovrà interrogarsi su questi aspetti. Si pensi che cosa poteva significare l’operare così in un centro di presunta “perfezione” ceramica come Faenza il cui ruolo non era certo quello di azzerare l’opera come Leoni proponeva, farla diventare miseri residui di memorie conscie-inconscie, di campagne archeologiche, ma di ricomporre l’opera da ogni qualsivoglia sua distruzione e riportarla a nuova vita: ”post fata resurgo” di ballardiniana memoria.
 

E che faceva Zauli se non proprio quest’opera di restaurazione, rendendo bello anche lo scarto di fornace (il “frogno”), coi suoi bianchi tanto esaltati e non a caso riproposti come spinta “risorgimentale” dei bianchi cinque-secenteschi? I “bianchi” di Zauli, appunto… Ricordo poi molto bene quanto fosse criticato l’uso che talora fece lo Zauli della parola “primate” dalla forte implicazione antropologica e di dibattito culturale-estetico per intitolare qualche sua opera, ma a cui non veniva riconosciuta la necessaria elaborazione culturale, teorica. L’osservazione partiva da certi ambiti culturali come quello romano, per esempio, attorno a Filiberto Menna. Anche il pittore Mattia Moreni, che in quegli anni operava a Brisighella e in località Calbane Vecchie, gli contestava la pretesa, e dunque la legittimità di una tale uso, di una tale prerogativa quando l’autore semplicemente andava restituito ad un puro e semplice ambito plastico-ceramico anche se non privo di specifica qualità tecnica, che poi era l’unico aspetto da nessuno mai contestatogli.Quest’ultima operazione a cui giungeva Alfonso Leoni all’incirca nel secondo quinquennio degli anni settanta, proprio alla vigilia della sua morte, a che cosa avrebbe potuto condurre poi? Non lo possiamo dire.

La performance e il Premio Faenza cui perveniva con le due vetuste vetrinette museali all’interno delle quali aveva posto grossolani frammenti di terrecotte da stufa Becchi a legna insieme a più sofisticati frammenti di porcellane con serigrafie di ritratti sia pur derivati dalla pittura storica ma come mortine da tomba, portavano il peso ambiguo della distruzione per un ancora incerto rimpasto faticosamente tentato di ricomporre, e l’associazione dell’archeologia alla collocazione tombale immanente (e anche qui un assorto, severo riferirsi al museo…) parevano non dare scampo. Non vorrei dare a questi esiti ultimi il significato di una morte presentita. Vorrei anche qui ricondurre il tutto a quella sperimentazione ludica con cui il nostro ininterrottamente aveva sfidato la sua grande intelligenza e fattualità. Perlomeno, dalla fine degli anni cinquanta non ancora ventenne e con gli stessi “vasi” qui presentati per esempio. Un inizio ortodosso ma di qualche vibrazione. Da quel momento assistiamo però ad una elaborazione della ceramica messa a confronto con certi esiti dell’arte contemporanea.
A Leoni non interessava far emergere le contraddizioni della ceramica, non aveva lo snobismo delle umili origini, non la sua epifenomenicità subalterna. Legato da profonda amicizia con Angelo Biancini, uno scultore figurativo ormai al tramonto durante la giovinezza di Leoni ma da questi amato perché intelligente e con singolari aperture verso il mondo dell’arte, capiva anzi che il materiale ceramico poteva sfidare l’elaborazione degli altri materiali artistici, e tutto per lui divenne così una sfida nell’amore profondo per la sua “domus”. Si vedano gli stupefacenti lavori degli anni sessanta in carta d’impronta “optical” negli esempi in questo catalogo.
Una elaborazione in cui la docilità della carta doveva servire a trovare via via la docilità della ceramica. Certamente poi, per taluni accumuli, più che di pregnanza antropologica si tratta per lui di costruzioni per irregolarità di piani, di costruzioni sovrapposte fra pieni e vuoti, quasi sempre al limite di equilibri in uno studio della forma astratta in cui si mostrano certe sue sculture metalliche più che altro di piccolo formato come a farne dei modelli. E con queste l’artista faentino guardava anche in certi agganci totemici i lavori dei Basaldella, di Franco Garelli: ma già si perveniva al “nouveau réalisme” che da Milano iniziava a propugnare il critico d’arte Pierre Restany …
 

Penso che già a Leoni non sfuggisse un versante più moderno del gioco, quello che sarà la “gamification” che aggiunge specificità contemporanee all’antica accezione di “homo ludens” e ai “game studies”. Ma poi in certe costruzioni ceramiche ci s’accorge, come dicevo, che anche i significati totemici basaldelliani eran stati osservati…La manipolazione poi del vaso, le varianti del gioco del tornio nelle fasi iniziali erano comprese in quest’artista, a tal punto che troverei affinità con i percorsi di uno scultore di grande statura come l’inglese Tony Gragg vivente, nato nel 1949, che proprio partendo dall’osservazione delle fasi iniziali dell’opus ceramico, ne ha fatto pretesto fecondo di una ricerca straordinaria sulle forme, tali che neppure più le si richiamano ormai quelle fasi iniziali, mentre osservo che oggi si trascura proprio di ricordare quelle antiche origini ceramiche di Gragg stesso. Mi pare di poter dire che Leoni era sulle orme di un percorso similare. Non va trascurata questa singolare connessione.Ritengo tuttavia che la somma manipolazione dell’argilla, Leoni la trovasse con l’adozione della trafila, un mezzo meccanico ma straordinariamente duttile nell’offrire alla mano dell’artista le elaborazioni migliori e mature. Si dovrebbe qui inserire la connessione di Alfonso Leoni con Alessio Tasca, ma il significato della loro opera è profondamente diverso. Il lavoro della trafila in Leoni è strumentale ad un esito che nasconde la trafila stessa per farne tutt’altra cosa, e quasi non lo si direbbe che l’abbia usata, i risultati sono “femminili” direi, con volute, sinuosità quasi libertyarie/art nouveau, ogni tensione interna è celata, i gonfiori si costruiscono, montano. In Tasca la struttura della trafila diviene l’essenza stessa dell’opera, essa viene esibita, tagliata, lacerata, rivissuta espressionisticamente direi, esaltata tettonicamente.
Ed ecco invece per Leoni: i flussi, le torsioni, i traforati e i geometrici, i cosiddetti ciotoloni ripieni di “ratatouilles”, memorie dell’infanzia dove veramente si esprimono al meglio i sentimenti del gioco, nel riporre e comporre e sfidare la fragilità di tanti giochi o parti di giochi della memoria, meccanismi smontati e rimontati soltanto apparentenente negli equilibri-squilibri dei residui meccanismi, che residui non appaion più così ricomposti. E che sono se non nascondimenti di tecniche e materiali e procedimenti le “torsioni” del 1974, fatte in ceramica quel che eran state fatte in gommapiuma da Sante Monachesi, e che venivan chiamate “Evelpiume”? E poi… ricordo che tanti bambini presto disfano i giocattoli, perché incuriositi dei meccanismi, delle parti interne, di certi particolari, delle rotelline, delle viti….


I giochi così terminavano a loro autonomia di oggetti, ma non si poteva dire che comunque non fossero funzionali perlomeno nella distruzione alle attività connesse con le tendenze ludiche del bambino, col suo divertimento, e che si divertisse a… distruggere diveniva essenziale, era un’attitudine creativa. D’altronde anche le bambine che spogliano, vestendo e rivestendo le bambole ricorrono di fondo all’opera distruttiva del divertimento…Dei giochi a me convince che facessero parte anche le “automobiline” qui pubblicate, gli stessi carrarmati, che giochi rimangono anche se gli si volle dare un significato politico di reminiscenze belliche del Vietnam… Questi oggetti, d’altra parte è noto che facciano parte del culto collezionistico. E qui l’artista parrebbe venire a sfiorare i meandri, i meccanismi della “gamification” come sopra accennato. In ogni caso, il gioco per lui sembra assumere le connotazioni dei game… Ecco così che vedo Alfonso Leoni dotato di una versatilità straordinaria connessa allo stupore dell’infanzia, all’intelligenza della ricerca, alla curiosità dell’ignoto, ai meccanismi di connessione.La tangenza allora con gli artisti delle metamorfosi degli oggetti mi appare del tutto evidente… Di quel “nouveau réalisme” di cui fu fatta in anni ancora recenti una bella mostra al Grand Palais di Parigi. Come Jean Tinguely, César, Arman, Daniel Spoerri, Joseph Cornell e i loro assemblages.Alla fine, poi, importa poco che sia in ceramica, di fatto l’opera con Leoni si riappropria dell’autonomia espressiva, interessa per il percorso personale dell’artista, per ripercorrerne la vicenda, e quindi va collocata nell’ambito di uno fra i movimenti artistici più interessanti del XX secolo… Lo studio di Leoni va ripreso da questi spunti interpretativi.

Gian Carlo BojaniFano, agosto 2011

Per info Archivio Alfonso Leoni (A.A.L.) scrivere a: archivio@alfonsoleoni.it | Crediti